Demoricostruzione, la Cassazione penale impone un passo indietro

In tema di demoricostruzione si potrebbe dire che, fatto un passo avanti, se ne fa almeno uno indietro.

È come se, infatti, vi fosse una continua rincorsa tra il legislatore – sempre più propenso a favorire ogni forma di rigenerazione urbana, pur di contenere il consumo di suolo (che in Italia, secondo il rapporto Ispra 2022, ha raggiunto l’allarmante media di 19 ettari al giorno), – e taluna giurisprudenza – viceversa convinta di dover salvaguardare una definizione di ristrutturazione edilizia conservativa e di mero recupero dell’esistente.

Non può essere trascurato, del resto, che anche la recente novella normativa di cui al d.l. n. 76/2020 (cd. Decreto Semplificazioni) convertito, con modificazioni, dalla legge n. 120/2020, che ha innovato e ampliato la definizione di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3, lett. d), d.P.R. n. 380/2001, era in realtà volta a superare la lettura restrittiva offerta dalla Corte Costituzionale con la nota pronuncia n. 70 del 24.4.2020.

Sicché la nozione di ristrutturazione edilizia è stata progressivamente “dilatata” dal legislatore fino ad ammettere e a ricomprendere, accanto alla cd. “ristrutturazione conservativa”, la potenzialmente ben più incisiva “ristrutturazione ricostruttiva” con l’evidente scopo di favorire la sopravvenuta esigenza di incentivare gli interventi di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente.

Tuttavia, a quanto pare, non è bastato.

Secondo una recente pronuncia della Cassazione penale “la ristrutturazione, per definizione, non può mai prescindere dalla finalità di recupero del singolo immobile”; da qui la “necessità che venga conservato l’immobile preesistente, del quale deve essere comunque garantito il recupero” (Cass. pen., sez. III, 18.1.2023, n. 1669 link).

La Suprema Corte ha, quindi, negato la possibilità di sostituire degli edifici rurali in zona agricola, con un complesso residenziale costituito da dieci villini in linea e un parcheggio a raso con copertura fotovoltaica, affermando che “con riguardo alla ristrutturazione non vi è spazio per nessun intervento che lasci scomparire ogni traccia del preesistente”.

D’altro canto, tali interventi sarebbero funzionali “non alla realizzazione di un organismo edilizio in tutto in parte diverso dal precedente ma pur sempre identificabile con quest’ultimo, quanto, piuttosto, di plurimi diversi organismi, quali le villette” distanti “dal criterio fondante della ristrutturazione” che imporrebbe “un connubio materiale o comunque funzionale e identitario, tra l’edificio originario e l’immobile frutto di ristrutturazione”.

In altri termini, sarebbe preclusa l’operazione di ripristino che “si traduca nella moltiplicazione, da un unico edificio, di più distinte autonome strutture edilizie” (in relazione al quale sarebbe addirittura configurabile il reato di lottizzazione abusiva…), così inibendo la cd. demolizione con ricostruzioni, ma anche, “di converso, l’assorbimento di plurimi immobili in un unico complesso edilizio”, ovverosia la categoria delle demolizioni e ricostruzione.

C’è da chiedersi, però, se tale lettura restrittiva sia, per un verso, aderente al testo normativo che ora indubbiamente ammette interventi con “diversa sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche”, e, per altro verso, rispettosa dell’obiettivo prioritario di contenimento del consumo di suolo mediante interventi di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente.

In questo quadro appare, dunque, francamente incomprensibile l’esigenza – valorizzata dalla Cassazione – di mantenere una “correlazione tra edificio demolito ed edificio ricostruito”, quando si dovrebbe dare forse priorità alla certo più virtuosa finalità di rigenerazione urbana, senz’altro non incentivata dalla prospettiva di incorrere persino in reati, per il solo fatto di aver ottenuto un permesso di costruire conforme alla lettera della legge.