Quante definizioni di «demo-ricostruzione» dopo la l.r. n. 18/2019?

La l.r. lombarda n. 18/2019 ha il pregio di aver finalmente consentito agli operatori lombardi di superare le difficoltà interpretative in tema di demo-ricostruzione dovute all’applicabilità di due normative spesso non allineate: da un lato, l’art. 3 del d.p.r. n. 380/2001 (TUE) e, dall’altro, l’art. 27 della l.r. n. 12/2005.

Entrambe le disposizioni, infatti, riportavano «definizioni degli interventi edilizi» che negli anni si sono contraddette, rincorse e sovrapposte, creando non pochi imbarazzi nell’applicazione pratica.

Ora, con la soppressione, di fatto, del richiamato art. 27 e il rinvio alla definizione contenuta nell’art. 3 del TUE, si possono ritenere venute meno alcune letture equivoche.

In particolare, può considerarsi superata la pretesa riconducibilità alla categoria della nuova costruzione degli interventi di sostituzione edilizia («demolizione ricostruzione anche con diversa localizzazione nel lotto e con diversa sagoma, con mantenimento della medesima volumetria dell’immobile sostituito»), viceversa ammessi nell’ambito della fattispecie della ristrutturazione edilizia dall’art. 3 TUE (con il distinguo per gli interventi riguardanti edifici sottoposti a vincoli, in cui rimane indispensabile il rispetto della medesima sagoma dell’edificio preesistente).

In altri termini, anche in Lombardia, la definizione di demo-ricostruzione a cui fare riferimento dovrebbe essere oggi solo quella dell’art. 3 TUE, secondo cui:

«nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica».

Rimane però esclusa la diversa ipotesi della demo-ricostruzione di edificio con preesistenti distanze inferiori a quelle legali.

In questo caso, è senza dubbio inapplicabile la definizione contenuta nell’art. 3 TUE, con il mantenimento della sola volumetria preesistente, essendo invece delineabili due distinte soluzioni.

Anzitutto, quella tradizionale della fedele ricostruzione, più volte confermata nella sua efficacia dalla giurisprudenza (tra le altre, v. Tar Milano, n. 5831/2007), che presuppone però una identità di:

– sagoma,

– sedime,

– volume

– e materiali.

Soluzione, questa, di recente bypassata dal «nuovo» art. 2-bis, comma 1-ter, TUE («deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati», introdotto dal Decreto Sblocca cantieri) in forza del quale «in ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo».

Sicché, per poter mantenere le distanze preesistenti (benché inferiori ai limiti prescritti dall’art. 9, d.m. n. 1444/1968), la ricostruzione del fabbricato può avvenire anche senza il rispetto della sagoma (intesa come «conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale», al contrario di quanto statuito dalla Corte Cost. nella pronuncia n. 309/2011), purché venga assicurata:

  • la coincidenza dell’area di sedime;
  • la coincidenza del volume (malgrado si faccia riferimento a una «coincidenza» e non alla «stessa» volumetria, dovrebbe esserne «precluso soltanto un aumento»; v. Tar Napoli, n. 4265/2014);
  • l’altezza massima dell’edificio demolito.

Riassumendo, con il riordino indotto dalla l.r. n. 18/2019, residuano due definizioni di demo-ricostruzione (oltre a quella per edifici vincolati), diversamente applicabili in ragione della esigenza o meno nel caso concreto di beneficiare delle minori distanze preesistenti.